L'economia della creatività L'autocritica artenese

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Una caratteristica della popolazione artenese che mi ha destato una certa impresione fin da quando ho cominciato a conoscerla, è la forte critica che i suoi membri rivolgono alla propria comunità. Se si va ad approfondire, vien fuori che gli artenesi attribuiscono alla propria gente difetti tipicamente nazionali, ma che essi paiono considerare tipici solo del proprio paese. Testardi, invidiosi, individualisti e incapaci di collaborazione, ignoranti, meschini, profittatori, chiusi e sospettosi, sono solo alcune di queste accuse.


Quando provo a far notare che non è vero, che la maggior parte della gente che ho conosciuto ad Artena avrà pure i difetti che accompagnano la mentalità italiana, ma anche i suoi pregi, e che anzi riscontro qualità molto caratteristiche, come la vivacità, l'energia, la fierezza e il coraggio, e anche l'autocritica (quando è moderata...), i miei interlocutori scuotono il capo. Ammettono alla fine che sì, in effetti non sono poi così diversi dagli altri italiani, ma alla fine tornano al loro mugugno.


Le ragioni di tale atteggiamento risiedono probabilmente sia nella storia profonda (le distruzioni della città inflitte dai Papi, la fama di "paese dei briganti") che in quella recente (il trauma della scissione fra il vecchio e il nuovo, accentuata dalla presenza incombente di una memoria solidificata in un centro storico splendido, a sé, mai inglobato dalla modernità che ha potuto svilupparsi soltanto a valle).

Se il fenomeno dell'autocritica in quanto tale mi par degno di nota, meno serie mi sembrano le critiche stesse, anche quando cogliessero banalmente nel segno. Cinici e disincantati, gli abitatori d'Italia? Se ne lamentavano già Guicciardini e Leopardi. Vogliamo dar la stura alle litanie sui governi, i politici, i furbi che accomunano i bar di tutta la penisola? Sai che novità...

C'è però un tema specifico che merita di venire rintuzzato, perché ripetendosi tende a ostacolare un gran pregio del luogo, cioè la voglia di far festa, di organizzare eventi, di darsi da fare per e con la comunità.

La piccola Artena conta decine di iniziative sorte dal basso, come feste, conferenze, spettacoli, discussioni, che farebbero l'invidia di centri molto più grandi e ricchi. Eppure queste iniziative spesso non riescono ad assurgere a quel livello operativo e produttivo che altri centri (anche più piccoli, in verità) sviluppano da cose assai meno significative.

L'argomento suona più o meno così: "Non si dica che lo facciamo per i soldi!" (gli organizzatori) e "Lo fanno per i soldi!" (gli osservatori).

La prima versione è un'applicazione della tendenza all'autocritica alla quale accenavo sopra. Perché non si dovrebbe far qualcosa anche per i soldi? Viene in mente un attacco piuttosto buffo rivolto contro madre Teresa di Calcutta, rea di aver usato a fin di bene soldi "sporchi". Avrebbe dovuto usarli a fin di male? E se la festa di paese che attira turisti e rallegra la comunità frutta qualcosa alle persone che la organizzano, il diavolo comincerà forse ad aggirarsi per le piazze del centro storico?

La seconda deriva generalmente da invidia spicciola, o dall'atteggiamento tipico delle "anime belle", che in sostanza vuol dire: da persone con uno stipendio o una pensione, che vagheggiano la bellezza delle feste di un tempo dove "era tutto gratis". Sì, gratis, ma grazie all'impegno e al lavoro altrui... allo spirito comunitario... alla creatività capace di generare l'evento del dono, con beneficio degli esteti pasciuti di passaggio.

Oggi, le condizioni di pressione sociale ed economica sulla comunità sono tali, che l'evento creativo del dono rischia di scomparire, ed è in effetti già scomparso in molti casi. Disoccupazione, mancanza di prospettive, e inquadramento sociale non permettono più di vivere facilmente una vita così bella da fiorire nel gioco e nel dono. E' questa una condizione disgraziata della contemporaneità.

Cosa dobbiamo fare allora? Accettare tali condizioni e rinchiuderci in casa a guardare la tv? La risposta non è certo nel commercializzare tutto, ma nemmeno nel pretendere doni da chi non può più darli se non in maniera mediata da categorie e modalità economiche minime, come la vendita del piatto di pasta in piazza, o la richiesta di un piccolo contributo.

E se la festa diventasse anche uno strumento di sostentamento, un lavoro bello in sé? E se la raccolta fondi, la partecipazione all'acquisto del prodotto e al sostentamento del lavoro dedicato alla festa, fossero modi di prender parte alla festa, anziché consumarla? Lo sviluppo della qualità di vita urbana passa anche per l'economia, che non va demonizzata, o, peggio, confusa ad arte con il male che attraversa la nostra società occidentale, quasi si potesse paragonare lo spirito vorace di una multinazionale con le preoccupazioni di un padre di famiglia, o con la visione e il desiderio di una comunità che desidera crescere.

Un po' di economia ben organizzata per aiutare il "bel vivere" artenese - la festa, la piazza, il tempo libero - è essenziale per sviluppare le potenzialità straordinarie della città.

Il Festival dei Due Mondi di Spoleto nacque così, organizzando con mezzi economici una visione lungimirante che fece del piccolo centro umbro un riferimento internazionale di "vita bella" - quella che il sistema economico davvero vorace ci sottrae ogni giorno.

Si può restare autentici, e provare a vivere della propria creatività, intelligenza, bellezza, convivialità. Aiutare e aiutarsi. Guardare alto. Rendere un insegnamento per tutti quello che abbiamo dentro. Economia è una parola di origine greca che vuol dire originariamente: aver cura del proprio luogo, della propria casa.

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